Il mestiere che ho fatto per 40 anni mi ha dato la possibilità di incontrare persone straordinarie. Volti che ti restano dentro per una sorprendente umanità, a prescindere dal loro ruolo o dal loro credo: papi e venditori ambulanti, cristiani ed ebrei, uomini di Dio e agnostici. Avendo più tempo libero e non avendo ancora perso il gusto del racconto ho iniziato a scrivere brevi ritratti di alcune di queste persone speciali che ho avuto la fortuna di conoscere. Comincio con Ceija Stojka, una zingara di fede cattolica che da bambina ha conosciuto l’inferno del lager nazista di Bergen-Belsen. La incontrai a san Pietro nel giugno 2012.
Violini, tamburelli e donne con le vesti sgargianti. Frotte di bambini corrono sotto il colonnato del Bernini rimproverati da vecchie piene di ciondoli e braccialetti. San Pietro invasa da migliaia di rom e sinti vestiti a festa, zingari, come li chiamiamo noi con espressione che suona un po’ come un rimprovero o un insulto. Ma non sono venuti qui a mendicare o a insidiare i turisti. Sono stati convocati dal Papa. Mai successo in tanti secoli cristiani: il primo raduno europeo del popolo nomade in Vaticano. È sabato 11 giugno, anno 2012. Potrà sembrare strano a tanti superficiali ammiratori di Benedetto XVI ma fu proprio lui il primo pontefice che volle incontrare il popolo nomade nel ‘recinto di san Pietro’. Gesto coraggioso, scandaloso, come lo furono alcuni gesti misericordiosi di Gesù nei confronti di persone malfamate e ai margini della società.
Un altro Papa, Paolo VI, aveva sfidato l’impopolarità recandosi a Pomezia il 26 settembre 1965, poche settimane prima della conclusione del Concilio ecumenico Vaticano II, al raduno internazionale di rom e sinti. "Cari zingari” li salutò Montini, che quel giorno era febbricitante, in un terreno reso paludoso dal violento nubifragio che nella notte si era accanito su Pomezia. Ma ora, con Benedetto XVI, l’incontro aveva luogo addirittura all’ombra del Cupolone, nell’Aula delle udienze generali. Evento degno di nota anche per un tg nazionale, laico, come il Tg2. Ero lì, quel sabato mattina, in Vaticano con l’operatore Franco Trifoni, a filmare quella variopinta e surreale carovana umana e a raccogliere le prime voci dei partecipanti che si apprestavano ad entrare nell’Aula Paolo VI (ricordo un ragazzo gitano che mi disse “è vero, qualcuno tra noi fa cose brutte, ma non siamo tutti ladri! Ti prego, dillo nel tg”).
Fu allora che la vidi avanzare sotto le colonne di san Pietro e dal suo portamento, semplice ed elegante, sembrava una regina. Indossava una gonna colorata lunga fino ai piedi, una camicia bianca e uno scialle. Qualcuno mi disse che si chiamava Ceija Stojka, rom austriaca, cattolica, dipingeva e scriveva poesie. Era sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti. Un olocausto meno noto di quello ebraico; i rom lo chiamano Porrajimos, il “grande divoramento”; si stima che 500mila zingari vennero eliminati negli anni 1939-1945 per ordine di Hitler che li considerava “razza inferiore” alla stessa stregua degli ebrei.
Ignoravo la storia di Ceija, mi avvicinai e chiesi di poterle fare alcune domande. Disse che era molto grata al Papa e sperava che il razzismo fosse morto per sempre in Europa ma lei temeva stesse “solo dormendo”. Con delicatezza si tirò su la manica della camicia bianca e mi mostrò il tatuaggio che i nazisti le incisero sulla sua pelle. “Avevo 9 anni, ero una bambina, venni marchiata come uno dei cavalli che mio padre vendeva alle fiere”. Settanta anni dopo quel marchio bluastro era ancora ben visibile: Z6399. “la Z sta per zigeuner, zingaro”, mi disse Ceija. Il padre e decine di parenti furono sterminati. Lei con la mamma e alcune sorelline finì prima ad Auschwitz, poi a Ravensbruck, infine nell’inferno di Bergen Belsen.
Tu stai lavorando, una bella giornata di sole, sei soddisfatto delle immagini colorate e curiose che hai già filmato e ti assicurano un pezzetto carino nel tg delle 13. E ad un tratto, senza preavviso, vieni trascinato in un buco nero della storia. Ceija mi raccontò dei mesi vissuti nel lager di Bergen Belsen, da gennaio ad aprile 1945 (tutti dovrebbero leggere il suo libro di memorie, pubblicato in Italia col titolo “Forse sogno di vivere” ed. Giuntina, 2007). La collina dei morti – una catasta di migliaia di cadaveri - era diventata per lei l’unico riparo dal vento gelido dell’inverno: “Nella nostra zona, all’epoca, c’erano già due grandi mucchi di cadaveri. Venivano portati da noi anche i morti di altri settori del lager. Sono diventati sempre più numerosi, i mucchi diventarono sempre più alti. Se non ci fossero stati i morti ci saremo assiderati. Mia madre ha detto: ‘meglio infilarsi tra i morti, non c’è vento, e tanto tu non hai paura!’ Dunque, mi ci sono infilata, la testa all’esterno, i piedi all’interno. Faceva un bel caldo, lì in mezzo … avevamo voglia di fare qualcosa e allora rivoltavamo i morti in modo che non giacessero capovolti. In modo che con la faccia non guardassero in terra ma in alto, verso Dio”.
Non avevano nulla di cui cibarsi, soprattutto negli ultimi mesi di prigionia. Mangiavano la terra, mangiavano le foglie, mangiavano la stoffa dei vestiti dei morti. “Pensate che noi zingari eravamo considerati talmente poco che non usavano nemmeno il gas per ucciderci. Ci facevano morire di malattie e di stenti. Non so come ho fatto ad uscirne”. Tra quell’orrore a poco a poco veniva da pensare che non ci fosse altra realtà, in tutto in mondo, se non quella: “A mia madre a un certo punto chiesi: ‘Mamma credi che il mondo intero sia così? Come avrei potuto credere che a qualche chilometro di distanza c’era una città con delle case, con giardini e lilla, con insalata pane e burro?”. Quando arrivarono i soldati britannici, non riuscivano a credere ai loro occhi. 16mila superstiti ridotti a pelle e ossa e una collina di 23mila cadaveri. Ne avevano viste di cose tremende, sui campi di battaglia. Ma uno scenario così neanche all’inferno immaginavano di vederlo. “Molti piangevano e noi – racconta Ceija – li dovevamo consolare”.
Tra i conducenti delle ambulanze c’era un giovane volontario americano, William Congdon, pittore della scuola di Pollock. Ciò che vide a Bergen Belsen mutò in profondità la sua vita, la riflessione sul male di cui è capace l’uomo lo portò lentamente alla conversione, dopo la guerra ricevette il battesimo con rito cattolico ad Assisi e divenne amico di don Luigi Giussani. Questo è uno dei disegni che Congdon fece a Bergen Belsen: negli occhi della donna, moribonda, tutto l'orrore che aveva subìto.
Alcuni soldati britannici furono così sconvolti dalla visione della collina dei morti e dalle condizioni dei superstiti che volevano, per un senso primitivo di giustizia, offrire ai superstiti la possibilità di punire con la stessa crudeltà i loro carnefici. Ceija racconta: “Un soldato inglese è venuto a me e ha detto: qual è il sorvegliante che ti ha picchiato? Qual è quello che ti ha fatto del male? Con chi ti piacerebbe sfogarti un po’?. Io l’ho osservato, continuo a rivivere la scena quando la racconto: ‘Con chi ho voglia di sfogarmi?’ ho chiesto. ‘Quello che ha fatto parecchio male alla mia mamma’, e ho indicato il soldato che aveva quasi spezzato la mano a mia madre. L’inglese è andato a prenderlo e io avrei dovuto colpirlo col calcio del fucile. Ma come avrei potuto? No! Non avrei mai potuto. Ho detto. ‘Non ci riesco. Mi dispiace. Non ci riesco. Non avertene a male!’. ‘Ma ha spezzato la mano a tua madre!’ MI ha sollecitato a farlo. E io ho detto: “Non lo farò”. Ho visto quel soldato tedesco davanti a me. Era giovane. Aveva forse ventotto, trenta anni, ed era assolutamente stupito che non lo colpissi. Posso solo immaginare che in quel momento abbia visto Domineddio. Se avessi detto all’inglese che avrei voluto vederlo morto, avrebbe alzato il fucile e avrebbe potuto sparargli. Ma di noi non l’avrebbe fatto nessuno! È stato Domineddio a donarci la vita. E noi, in quella zona del lager, eravamo gli unici sopravvissuti”. Ed ancora: “può suonare strano ma io ho provato compassione anche per i nazisti. Erano esseri umani pure loro. E il sangue ha circolato nel loro cuore proprio come nel nostro. L’unica differenza è che nel nostro ha circolato un po’ più velocemente perché noi abbiamo avuto sempre paura”.
Molti dettagli sulla vita di Ceija Stojka (nella foto di famiglia qui sopra è la bimba con i capelli biondi, al centro) li ho appresi solo dopo quel sabato mattina, 11 giugno 2012, spinto dall’impressione che mi fece l’incontro con quella donna di 79 anni. Conclusa l’intervista in piazza san Pietro la signora Stojka entrò nell’aula delle udienze generali dove già avevano preso posto i circa duemila rom e sinti venuti da ogni parte d’Europa. Dopo un po’ fece il suo ingresso il Papa, Benedetto XVI, accompagnato dalla musica di un’orchestra zigana. Le sorprese della storia: un papa tedesco accoglieva in Vaticano un popolo malfamato, che Hitler aveva martirizzato. Alla presenza del Papa fu chiamata proprio Ceija a dare una testimonianza sulle sofferenze patite dalla sua gente. Parlò con un tono amaro ma privo di risentimento. Disse che non vedeva un futuro per i Rom. Espresse il timore che Auschwitz stesse solo ‘dormendo’. E aggiunse: “Se il mondo non cambia adesso, se il mondo non apre porte e finestre, se non costruisce la pace – la pace vera! – affinché i miei pronipoti (il quarto nascerà fra alcuni mesi) abbiano una chance a vivere in questo mondo, allora non saprei spiegarmi il perché sono sopravvissuta ad Auschwitz, Bergen Belsen e Ravensbrück”.
Alla fine del suo intervento papa Ratzinger, il papa tedesco, l’abbracciò e lei fu presa dalla commozione. Ceija aveva gli occhi lucidi.
Benedetto XVI citò le parole rivolte da Paolo VI agli zingari nel 1965: “Voi nella Chiesa non siete ai margini, ma, sotto certi aspetti, voi siete al centro, voi siete nel cuore. Voi siete nel cuore della Chiesa”. Commentò che il popolo nomade ricorda a tutti i credenti di santa romana Chiesa che la vera casa di tutti, la vera patria è il cielo verso cui tendiamo. Ricordò anche il primo santo zingaro, Zefirino Gimenez Malla, proclamato beato da Giovanni Paolo II nel 1997; anche lui commerciava bestiame, come la famiglia Stojka.
Non rividi più Ceija. Morì a Vienna il 28 gennaio 2013, all’età di 80 anni. Più o meno in quei giorni Benedetto XVI ebbe modo di vedere, con suo fratello Georg, un documentario sugli otto anni del suo pontificato in cui avevo inserito anche l’intervista alla sopravvissuta di Bergen Belsen e le immagini del grande raduno degli zingari in Vaticano. Sicuramente, rivedendo quelle immagini e ascoltandola parlare, il Papa si sarà ricordato della signora rom che aveva abbracciato nell’Aula Paolo VI e delle lacrime di commozione che avevano bagnato anche la sua tunica bianca.
Grazie Lucio, una storia che mi ha commosso.
Un racconto che fa bene all’anima e che ci parla della vera fede in Cristo, del perdono, della speranza di chi ha sofferto l’indicibile. Grazie Lucio per questo tuo prezioso racconto che solo ora ho letto e che mi ha riportato tra quelle baracche di Birkenau, dentro il reticolato di Auschwitz e nel buio della cella in cui morì Padre Kolbe. Tutti luoghi fisici e reali dove la cattiveria e la barbarie dell’uomo ha cercato, invano, di impedire a Dio di entrare.
Mille grazie Lucio! Racconti una storia che mi fa fare un passo verso quella maturità interiore di cui parla Etty Hillesum!
Grande Lucio che storia da brividi