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  • Immagine del redattoreluciobrunelli

Paolo e Gregorios, amici in Paradiso

Aggiornamento: 16 feb

Ho conosciuto due preti, due uomini di Dio, che amavano pazzamente la Siria. Molto diversi, avevano anche idee molto diverse sul regime di Bashar al-Assad ma furono accomunati da uno stesso destino: entrambi scomparsi, da 9 anni non si ha più notizia di loro. Me li immagino in Paradiso, i cuori in pace ma impegnati a discutere e forse anche litigare sul futuro della Siria.



Il primo prete portava lo stesso nome del grande convertito sulla via di Damasco, si chiamava Paolo Dall'Oglio, era un gesuita. Il secondo si chiamava Mar Gregorios Yohanna Ibrahim, era il vescovo siro-ortodosso di Aleppo.



Si ritiene siano morti, tutti e due, uccisi, benché i loro corpi non siano mai stati ritrovati e nessuna sigla jihadista abbia mai rivendicato la loro esecuzione. Furono rapiti nel 2013, a poche settimane l’uno dall’altro. Mar Gregorios ad aprile, Paolo Dall’Oglio a luglio. Si suppone che a farli sparire siano stati gruppi di combattenti islamisti, al servizio di chissà quale delle potenze straniere che soffiavano sul fuoco del conflitto siriano. Tutti e due furono sequestrati nel nord della Siria mentre cercavano, con coraggio, notizie di altri sacerdoti rapiti, di cui speravano di ottenere la liberazione. Paolo fu visto l’ultima volta il 29 luglio a Raqqa, alcuni testimoni asseriscono di averlo accompagnato, ma solo per un tratto, verso il quartier generale del futuro califfato nero. Gregorios fu visto l’ultima volta il 22 aprile, ad Aleppo, in compagnia del vescovo greco ortodosso Boulos Yazigi, a bordo di un pick-up diretto verso il confine turco: l’auto fu ritrovata sul ciglio della strada, abbandonata, il corpo dell’autista era a terra, crivellato di colpi; si chiamava Fathallah, cattolico, padre di tre figli.



Dal momento della loro scomparsa nessuna informazione attendibile è mai pervenuta sulla sorte di Paolo e Gregorios. Ai loro cari è stato negato anche quel gesto minimo di pietà, la restituzione delle spoglie del “nemico”, che perfino gli achei e i troiani in una guerra non meno crudele combattuta non troppo lontano da queste zone, in alcuni casi rispettarono.

Paolo e Gregorios erano molto diversi, già nell’aspetto. Paolo era alto, aveva una corporatura maestosa, quando parlavi con lui doveva curvarsi un po’ per guardarti negli occhi. Era sempre molto preso da quello che diceva, nella conversazione si infervorava, sentivi che fosse per lui avrebbe continuato per ore. Ieratico, anche severo nelle sue riflessioni, ma con uno sguardo buono nel quale si leggeva non solo un carattere per sua natura mite ma anche la profondità del suo rapporto col buon Dio.



Gregorios era basso, aveva un fisico minuto, gli occhi vispi e un po’ furbetti. Si accalorava anche lui quando esponeva le sue idee, soprattutto quando lamentava l’ignoranza che c’è in Occidente riguardo al mondo arabo. Ma non era per nulla un tipo serioso. Lo ricordo allegro, con la veste lunga e il copricapo a forma di turbante, la skufia, di colore nero segno del suo essere monaco.

Anche Paolo era diventato un po’ un monaco. Da quando, negli anni 80, aveva fatto rinascere nel deserto vicino Damasco l’antico monastero di Mar Musa, sesto secolo dopo Cristo, dedicato a san Mosè l’etiope. Era riuscito a restaurarlo, riportando alla primitiva bellezza le mura e gli affreschi. Soprattutto era riuscito a farvi rinascere la vita monastica. Una comunità di fede e di preghiera, diventata punto di incontro e dialogo con la tradizione cristiana ortodossa e con l’islam, religione maggioritaria in Siria. Come tutti i grandi gesuiti Paolo amava le missioni impossibili, portare l’amore di Cristo nei punti di frontiera, dove nessuno aveva mai osato spingersi, come Francesco Saverio nel Giappone buddista, Matteo Ricci nella Cina confuciana e i gesuiti dell’America latina tra gli indios guaranì che vivevano sopra le impervie cascate dell’Iguazù. Paolo sentiva che la sua vocazione era essere testimone di Gesù tra i “fratelli” dell’islam, riconoscendo tutto ciò che di santo v’era nella loro religione (e senza chiudere gli occhi su quanto di meno santo si nasconde, a volte, sotto il vessillo della mezza luna). Era romano di nascita ma la Siria era diventata la sua seconda patria, anzi, forse la prima.

Anche Gregorios credeva nel dialogo e fu nella sua terra un pioniere dell’ecumenismo. Nato a Qamishly, vicino al confine con la Turchia e l’Iraq, aveva compiuto gli studi a Roma presso i gesuiti dell’Istituto orientale; anche per questo parlava perfettamente l’italiano. Fu nominato vescovo siro-ortodosso di Aleppo nel 1979. Nell’ottobre 1986 era ad Assisi, come rappresentante della sua Chiesa (separata da Roma) al grande incontro interreligioso di preghiera per la pace convocato da san Giovanni Paolo II, pontefice che incontrò più volte, anche in Vaticano.



Negli anni successivi partecipò, con entusiasmo, a tutti i meeting internazionali promossi dalla comunità di sant’Egidio per tenere vivo lo “spirito di Assisi” e fu ad uno di questi raduni che lo conobbi. “Devi venire in Siria – insisteva – è un paese meraviglioso e devi vedere con i tuoi occhi come viviamo noi cristiani arabi, in molti villaggi si parla ancora l’aramaico, la lingua di Gesù”. Riuscii ad andarci nel 2007, con il compito di realizzare un reportage sulla Siria per Tg2Dossier.

Gregorios aveva ragione. La Siria non era stata ancora violentata dalla guerra e la sua bellezza era inebriante. Entrammo a fare le riprese nella grande moschea degli Omayyadi, nel cuore antico di Damasco: fu completata nell'anno 715 d.C., con un minareto dedicato al "profeta" Gesù e all'interno il sepolcro di Giovanni Battista, meta continua di devozione da parte di fedeli musulmani e cristiani. Incontrammo le suore del monastero ortodosso di Sednaya, nel deserto, dove la gente si toglie i sandali prima di entrare a piedi scalzi, in segno di rispetto, come fanno i musulmani quando entrano nelle moschee.



Ci arrampicammo tra le alture rocciose dove sorge il villaggio interamente cristiano di Malula e sentimmo recitare in aramaico il Padre nostro. Passammo tra le rovine di Palmira, chiamata la Sposa del Deserto, dove tutto parla della regina Zenobia e del suo fiero tenere testa ai romani. Giungemmo infine ad Aleppo e subito fummo ammutoliti dalla eleganza medievale della Fortezza al centro della Cittadella. Sembrava che il tempo si fosse improvvisamente rallentato; musiche, colori, vicoli e palazzi ti portavano in un'altra dimensione, gli orologi della storia fermi, come nel leggendario ma ormai fatiscente hotel Baron, dove Agata Christie scrisse "Assassinio sull'oriente express" e Lawrence d'Arabia alloggiava nel lusso, lasciando ogni tanto qualche conto in sospeso.

La guerra non aveva ancora profanato la magia di questi luoghi ma nel paese si iniziava a respirare un'aria di inquietudine. Dal vicino Iraq centinaia di migliaia di profughi si erano riversati in Siria. La caduta del tiranno Saddam per ora non aveva portato più libertà e benessere ma solo nuovo terrore. Gli attentati sconvolgevano il paese, la violenza vendicativa degli sciiti colpiva sunniti e palestinesi. Anche decine di migliaia di cristiani iracheni avevano trovato rifugio nel paese confinante. I loro racconti spaventavano i cristiani siriani. Il regime di Assad era stato inserito dalla Casa Bianca nella lista nera degli "stati canaglia" e il timore di finire allo stesso modo dei fratelli iracheni era condiviso da molti siriani, anche da quelli che non amavano il dittatore. Mar Gregorios era uno di questi. Pensava che una guerra contro Assad avrebbe scoperchiato il vaso di pandora delle lotte settarie e mosso gli interessi delle grandi potenze regionali. Soprattutto si arrabbiava quando il suo paese veniva accostato ai paesi musulmani fondamentalisti. Ci diede appuntamento all'università statale di Aleppo, dove lui teneva un seminario sulle relazioni internazionali.



Voleva persuaderci che la Siria non era né l'Iran né l'Arabia saudita e che nel suo paese i cristiani godevano di maggiori spazi di espressione. Il fatto che un vescovo potesse tenere delle lezioni a degli studenti universitari in una nazione a maggioranza musulmana, per lui era già una prova di questa libertà. E certo non era una circostanza usuale nel Medio Oriente. Provammo a contestare la sua immagine ottimista di una Siria laica e pluralista facendogli notare il gran numero di studentesse con il capo coperto da un velo integrale e con gli abiti neri lunghi fino alle caviglie. Lui ci sorprese, uscì dall'aula dove aveva appena concluso la lezione e iniziò a fermare le ragazze velate che passavano in quel momento nel vialetto dell'università.



Le convinse ad accettare le nostre domande. Furono molto disponibili e per nulla infastidite. Ci dissero che per loro il velo non era una imposizione, né dello stato né della famiglia, ma una libera scelta individuale, dettata da motivi religiosi. "Voi ci parlate di democrazia, lasciateci essere come siamo", disse una ragazza, gentilmente.

Ma questa libera scelta - obiettammo - non crea un gruppo chiuso, un guardare alle altre ragazze vestite con abiti "normali" come infedeli o comunque cattive discepole del profeta? "Ma no", rispose una di loro senza spazientirsi, "chieda a lei" e ci indicò un'amica "svelata" con la quale, disse, stava andando a prendere in allegria un thè alla menta nella città vecchia. Restammo dell'idea che fosse meglio vivere in Occidente, con tutti i suoi difetti, ma imparammo a rispettare la diversità e a non fidarsi dei luoghi comuni; non dietro ogni velo c'era una donna oppressa o una potenziale terrorista.

Assad 'protettore' dei cristiani fu un ritornello ascoltato in molte chiese, anche a microfoni spenti.

I cristiani in Siria erano il 10 per cento della popolazione ed effettivamente godevano di una libertà di culto più ampia che in altre nazioni musulmane.



Il ragionamento era più o meno questo: meglio tenersi un dittatore che fa scudo al fondamentalismo islamico che l'incognita di una democrazia importata con le armi, sul modello iracheno, con gli effetti già visti. Ragionamento che aveva un suo perché, ma doveva chiudere gli occhi o accettare come una fatalità inevitabile le brutture di un regime che praticava la tortura e l'eliminazione fisica di ogni dissenso.

Paolo Dall'Oglio non poteva accettare che il costo della "protezione" dei cristiani fosse la rinuncia alla libertà, per tutti. Gli sembrava anche una politica miope puntare tutto su Assad, perché prima o poi il dittatore sarebbe caduto. Quando nel 2011 i primi moti di piazza fecero pensare che l'ora del cambiamento fosse arrivata anche a Damasco, Paolo si schierò, anima e corpo, a fianco dei rivoltosi. Sognò che le chiese cristiane, invece di guardare impaurite al cambiamento, si ponessero alla testa di una rivoluzione democratica che andava incoraggiata e guidata.

Lo avevo cercato nel mio viaggio siriano del 2007, non era ancora famoso nei media ma mi avevano parlato dell'esperienza straordinaria del monastero di Mar Musa e desideravo raccontarla all'interno del reportage. Lo raggiunsi al telefono, purtroppo in quei giorni il gesuita era impegnato in un viaggio in Europa. Lo incontrai a Roma nel luglio 2012, esattamente un anno prima del suo rapimento. Paolo era stato espulso dalla Siria come "persona non grata" a causa delle sue prese di posizione contro il regime. La guerra divampava ormai sul suolo siriano e Paolo stesso cominciava a temere una escalation internazionale e una deriva fondamentalista. Lo intervistai in un angolo del Campidoglio, dove era stato invitato a tenere una conferenza sull'amata Siria. Fu un incontro per me indimenticabile.



Ero convinto che l'unico modo per rendere persuasive le sue tesi fosse farlo reagire con i timori del clero siriano circa la "rivoluzione" anti Saddam. Padre Paolo rispose con molta efficacia: più il conflitto si estendeva (nel 2012 si entrava nel secondo anno di guerra), più la repressione si inaspriva e più quei timori si sarebbero rivelati fondati. Ma aggiunse che se le chiese cristiane avessero preso parte attiva nella lotta contro la dittatura, il cambiamento democratico sarebbe stato meno esposto ad un'egemonia integralista.

Nel notiziario della sera fu trasmesso solo un breve brano del nostro dialogo. La versione integrale è stata però recuperata in uno speciale del Tg2, curato da Angelo Figorilli, a quattro anni dalla scomparsa di Paolo Dall'Oglio, nel 2017.

Avrei voluto far a sentire a Mar Gregorios l'intervista, chiedergli un commento, magari nella prossima edizione del Meeting di Sant'Egidio che era in programma nell'ottobre del 2013 a Roma. Ma nè Gregorio nè Paolo poterono parteciparvi. Furono rapiti pochi mesi prima. Me li immagino in qualche angolo del Paradiso, venerati come martiri dalle loro Chiese, con i cuori in pace ma impegnati anche lì in interminabili e appassionate discussioni sul futuro del Siria. Pare che da lassù le cose si vedano molto meglio.




Post scriptum. In data 12 ottobre 2022 Il Corriere della Sera ha dato notizia di una nuova testimonianza video acquisita dai magistrati italiani (nel gennaio scorso) circa la sorte di padre Dall'Oglio. Ibrahim Saleh Al Hamdan, presunto autista di un dirigente dell'Isis sostiene che padre Paolo sarebbe stato ucciso subito dopo il sequestro da un certo Kassab, capo dell'Isis nel villaggio di Karama, ad est di Raqqa. Secondo la ricostruzione il gesuita stava cercando di contattare l'emiro Abu Lukman, voleva intercedere con lui per la liberazione proprio di Mar Gregorios e dell'altro vescovo greco-ortodosso rapito con lui nell'aprile del 2013. Il nuovo testimone sostiene che il suo capo, quando apprese la notizia dell'esecuzione di Dall'Oglio si infuriò con Kassab perché non voleva la morte dell'ostaggio. Forse anche per questo motivo l'Isis non rivendicò mai il sequestro di padre Paolo.

Secondo il Corriere la nuova testimonianza sarebbe comunque priva di riscontri e quindi non avrebbe modificato la decisione dei pm italiani di chiedere l'archiviazione del fascicolo di indagini. Decisione che ha lasciato perplessi amici e parenti di padre Paolo.








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