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  • Immagine del redattoreluciobrunelli

Sliding doors

Aggiornamento: 12 gen

Un anno fa mi fu chiesta una breve testimonianza su Aldo Moro (di cui fui alunno universitario) alla presentazione del libro di Angelo Picariello, "Un’azalea in via Fani"(edizioni San Paolo); un bel libro, racconta storie di terroristi che hanno abbandonato la lotta armata e dopo un percorso doloroso e sincero hanno avuto il coraggio di guardare in faccia il male compiuto incontrando i familiari delle loro vittime fino a diventarne, in alcuni casi, amici. Mi ha sempre colpito, pensando a quegli anni, la facilità con cui si poteva entrare in una militanza violenta oppure imbattersi in una storia di conversione cristiana. A volte bastava una circostanza di pura casualità, come nel film Sliding doors, a determinare il destino di una vita. La presentazione del libro, alla quale ero stato invitato, fu annullata causa covid. Questi sono gli appunti che avevo preparato per il mio intervento.


***


Prima di raccontare di Aldo Moro vorrei dirvi le due cose che più mi hanno colpito nella lettura di questo libro.

La prima: le storie intrecciate di tanti giovani cattolici finiti nelle brigate rosse e di tanti altri giovani, fatalmente attratti dalla ideologia rivoluzionaria, finiti invece in movimenti cattolici come comunione e liberazione. Alcuni di questi giovani li ho conosciuti personalmente all’inizio degli anni 70. E ho ritrovato i loro nomi nel libro di Picariello. Molte di queste storie le conoscevo; altre, davvero incredibili, le ho scoperte leggendo “Un’azalea in via Fani”.

Enzo Piccinini, che da ragazzo inquieto e voglioso di cambiare il mondo frequenta l’Appartamento, con la A maiuscola, dove a Reggio Emilia si forma uno dei primi nuclei della lotta armata comunista. Sembra un destino segnato, il suo. È il clima di quegli anni, è facile scivolare nell’estremismo, in un’ideologia violenta. Ma lì, in modo imprevisto, incontra i ragazzi cattolici di One Way, e per lui inizia, dentro cl, un’altra storia. Che continua anche dopo la sua morte, con un processo di beatificazione già iniziato.

Storie intrecciate. Destini diversi appesi a un filo. Il filo di incontri e circostanze in apparenza casuali che hanno determinato le scelte e il percorso di vita di quei giovani. Come in tante sliding doors del destino, la porta di una metropolitana che si apre o si chiude in una manciata di secondi e quella piccola circostanza cambia tutto lo svolgimento dei fatti successivi, il destino di una vita, come nel film di Peter Howitt.

Le storie di Marino Tedeschi, Gianni Dessì, Giuseppe Barbato, amici di Roma. Tutte raccontate nel libro. Marino frequenta una scuola di periferia, a Centocelle, il Francesco di Assisi, incubatoio della prima colonna delle BR. Gioca in una squadra di pallamano della sua classe e metà dei compagni di squadra diventeranno a breve brigatisti. Tra loro Walter di Cera che se un giorno non riuscirà a sparare a un carabiniere, come gli comandava Prospero Gallinari, fu anche perché gli era rimasto qualcosa dentro dell’esperienza dell’oratorio in cui quel ragazzo, Marino, suonava la chitarra. Dettagli che fanno la differenza. Marino viene bocciato, perde i contatti con i compagni di classe avviati alla lotta armata e la sua vita prende un’altra direzione grazie all’incontro con don Lorenzo Cappelletti (che allora non era ancor don ma solo un vivace studente di origini aretine trapiantato a Roma). Una bocciatura, di cui Marino ancora ringrazia Dio. E poi Gianni Dessì che da Antonio Savasta, suo compagno di studi al Benedetto di Norcia riceve l’invito ad andare ad aiutare i baraccati dell’acquedotto Alessandrino con degli amici di un gruppo cattolico, embrione di cl. Savasta poi lascia quell’esperienza e diventa brigatista, Gianni ci resta e scopre che si possono aiutare i poveri senza uccidere nessuno, e che il male ahimè corre anche dentro di noi, e non lo salva né Marx né Bakunin. Eppure, senza Savasta forse Gianni non avrebbe mai scoperto il cristianesimo. Grazie Savasta. E poi ancora Peppe Barbato, militante di autonomia operaia, resta ferito alla testa da un lacrimogeno durante uno scontro con la polizia il 12 maggio 1977, gli stessi disordini in cui perdette la vita Giorgiana Masi. Peppe deve essere medicato, ma non può andare in ospedale. Si rivolge ad un vecchio amico che nel frattempo ha conosciuto cl. Giampiero Bianchi lo porta nel pensionato di studenti fuori sede delle Cappellette, qui riceve una prima assistenza dalla neo dottoressa Vincenza Spallone (oggi diabetologa di fama internazionale), i punti di sutura glieli metterà invece un medico più adulto, sempre del movimento, nella sua abitazione nel quartiere Prati. Lo ricordo bene quel giorno, perché c’ero anche io, mentre quel medico gli applicava i punti. Da quella circostanza (un lacrimogeno) e da quegli incontri casuali, la vita di Peppe cambia. Gli feci da padrino quando l’anno seguente ricevette la cresima. Sliding doors.

Fu così anche per me. Che a vent’anni pensavo di aver rotto per sempre i ponti con la fede e con la Chiesa. Ero attratto dall’ anarco-cristiano Saverio, con lui vendevo in facoltà il giornale degli anarchici, Umanità nova. Pensavo che cambiando il sistema di produzione gli uomini sarebbero diventati migliori, le ingiustizie sarebbero finite e i valori borghesi sarebbero finiti al macero. Ricordo un grande corteo studentesco a Roma, 12 dicembre 1971, anniversario della strage di piazza fontana (appena due anni prima). “Calabresi ancora pochi mesi” si urlava. E pochi mesi dopo fu veramente ucciso. Non so che strada avrei preso, forse non credo che avrei mai premuto un grilletto, ma avevo gridato anche io, con migliaia di altri studenti, quello slogan assurdo, agghiacciante. Non so che strada avrei preso se non avessi deciso di iscrivermi a un seminario sul marxismo tenuto da un giovane e sconosciuto assistente, Rocco Buttiglione, e se in quell’aula, non avessi incontrato i primi studenti di una strana comunità che all’inizio pensavo, non so perché, fosse una specie di comune comunista e invece erano cattolici, facevano persino la comunione, era il primo nucleo romano di cl, nome che a quel tempo non mi diceva nulla. E se poi non avessi incontrato don Giacomo, io 20 anni, lui 26. Non so che strada avrei preso se non avessi riscoperto la fede cristiana, e una fede che non mi chiedeva di rinnegare la mia domanda di giustizia, il sogno ingenuo di una umanità nuova.

Storie intrecciate. Vite diverse grazie a incontri fortuiti. E circostanze impreviste. Una bocciatura, per Marino, un lacrimogeno per Peppe, un seminario sul marxismo… Anche per questo guardando agli amici che hanno preso altre strade, sbagliate, macchiate di sangue, che hanno fatto tanto male agli altri, alla società e a loro stessi, il giudizio è chiaro e netto. Ma lo sguardo è pronto a scorgere anche solo un piccolo spiraglio di dolore, di verità e di riconciliazione.

Infatti, la seconda cosa che mi ha colpito del libro sono le storie di perdono e di riconciliazione, tra familiari delle vittime ed ex terroristi. Sono storie miracolose. Vale a dire, non scontate, non pianificabili a tavolino, non sono solo l’esito di una buona volontà. Umanamente sembrerebbero impossibili. Però sono successe, succedono. Sono ben raccontate, con il giusto garbo, nel libro di Picariello.... C’è qualcosa di divino in queste storie, perché come si canta in chiesa: Ubi caritas Deus est. Dove c’è la carità li sta Dio. Al di là della consapevolezza che ne abbiamo, direi. Un percorso in cui, in molti casi, un ruolo importante l’hanno avuto figure di religiosi e religiose. Ricordo in particolare suor Teresilla, l’angelo delle carceri (chiedete a Maurice Bignami, ex capo di Prima linea, che con lei iniziò in carcere un cammino di pentimento e conversione) poi morta investita da un automobilista mentre compiva a piedi il pellegrinaggio dal centro di Roma al santuario del Divino Amore. Ma anche il gesuita Guido Bertagna e la sua ‘giustizia riparativa’... Non sono nomi famosi al grande pubblico, non cercavano i riflettori, i media, avevano a cuore le persone, la cura delle persone, e sapevano che storie di riconciliazione così, di amicizia, potevano nascere solo in un clima di grande intimità e discrezione. Che conforto scoprire che nell’Italia del rancore, come l’ha fotografata l’Istat, un’Italia depressa e a tratti incattivita, esistono persone così, che fanno del bene senza fare rumore, senza cercare protagonismi.

Vi dico infine di Aldo Moro, che è uno dei grandi protagonisti di questo libro. Nel libro ho raccontato ad Angelo alcune esperienze vissute quando ero suo alunno all’Università. Lui insegnava diritto penale nella facoltà di Scienze politiche, non mancava una lezione, nonostante gli impegni internazionali e politici. Faceva l’appello prima di iniziare la lezione, come a scuola. Veniva con la scorta. E quei volti, dei poliziotti che lo aspettavano nel corridoio, ci divennero familiari. La cosa per me sorprendente, tutt’ora, era l’attenzione che mostrava verso la realtà di noi, giovani studenti cattolici, che allora muovevamo i primi passi. Una realtà nata fuori dall’associazionismo cattolico ufficiale, da cui lui invece proveniva, la Fuci, l’azione cattolica. Però al di là delle sigle, dei linguaggi diversi credo che lui percepisse una linea di continuità tra la nostra esperienza e la sua storia. Continuità nel fondo delle cose: che si poteva cioè essere giovani e cristiani, con tutte le inquietudini e il bisogno di libertà e anticonformismo tipico di ogni giovane. Avere il gusto dell’intelligenza, della cultura, della lotta per il bene comune, ed essere credenti. Il 68 sembrava aver spazzato via ogni presenza cattolica nel mondo giovanile. Un grande esodo dalle parrocchie verso i movimenti politici della sinistra. Ai suoi occhi la Cl nascente di quegli anni rappresentava una novità interessante. Così capitava, è capitato anche a me un paio di volte, di essere chiamato insieme con Saverio alla Farnesina a dialogare con lui, parlo della metà degli anni 70. Lui ascoltava, era curioso, voleva capire. Se ci ripenso adesso mi sembra incredibile. Noi, io e Saverio Allevato, suoi studenti a Scienze Politiche, ci presentavamo alla Farnesina in lambretta, con i blu jeans e l’eskimo. In portineria ci prendevano per strani millantatori quando dicevamo di avere un appuntamento con il ministro. Poi chiamavano il ministro e ci facevano passare. Un uomo mite, un uomo aperto, un uomo che guardava il futuro. Sentiva che la sua Dc, non aveva futuro se franava il mondo in cui lui stesso si era formato.

Scherzando dico che Moro mi salvò la vita. 2 febbraio 1975. Ero finito all’ospedale in seguito a un brutto pestaggio compiuto da un gruppo di militanti neofascisti. Ero più di là che di qua. Prognosi riservata. In ospedale per il personale sanitario ero uno dei tanti che “se l’era cercata”, mi avevano messo in uno stanzone con una ventina di malati, mi sentivo abbandonato (forse mi sbagliavo). Insomma, Moro venne a trovarmi, come suo solito, con discrezione e sobrietà. Quando andò via, le cose cambiarono improvvisamente. Attenzioni e cure magicamente si moltiplicarono. Per questo, scherzando, dico che mi salvò la vita. Anche per questo, ci tengo, ogni anno, a compiere una visita alla sua tomba, in un bellissimo paesino che s’affaccia su un’ansa del Tevere, Torrita Tiberina, vicino Roma. Un cimitero di campagna. Una tomba senza lapidi istituzionali, spoglia, spoglissima. E dire una preghiera per Aldo Moro.



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