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Papa Leone, Benigni e "la vita è bella"

  • Immagine del redattore: Lucio Brunelli
    Lucio Brunelli
  • 5 giorni fa
  • Tempo di lettura: 4 min

Incontrando il mondo del cinema papa Leone XIV rivela i suoi film preferiti. Fra gli italiani c'è solo "La vita è bella".

Eppure quando uscì nelle sale, nel 1997, il film premio Oscar ricevette applausi ma anche qualche critica negli ambienti cattolici.

Un mio articolo per L'Osservatore romano (15 novembre 2025)


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Vedere un bel film è come ammirare un bel dipinto o essere sorpresi dai versi di una poesia. Prima d’ogni ragionamento, di ogni tentativo di comprensione dell’opera, il valore è nella segreta corrispondenza che ti riecheggia dentro, fra ciò che vedi e ciò che sei (a pensarci bene è così anche di ogni incontro vero della vita). Il film La vita è bella, che scopriamo essere tra i preferiti di Papa Leone, emoziona perché corrisponde ad uno dei sentimenti più primordiali iscritti nella nostra natura umana: l’amore per il proprio figlio, l’istinto di proteggerlo dal male. Roberto Benigni ha raccontato questo sentimento in forma poetica: «la poesia- ha commentato - è il punto di partenza di qualsiasi opera, di qualsiasi creazione».

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Il 9 marzo 1998, a Firenze, il cardinale Silvio Piovanelli invitò l’attore toscano ad un dialogo con il clero diocesano. Fu un dialogo simpatico, effervescente; lieve e profondo insieme, come il film. «Proteggere la purezza, i bambini dal trauma – disse l’attore toscano - Questo credo che sia il nocciolo centrale del film: proteggere la purezza dal trauma». Gli chiesero come era venuta, a lui e allo sceneggiatore Vincenzo Cerami, l’idea.  Lui rispose che la trama non era stata definita tutta a tavolino, dall’inizio: «è come quando la melodia ti viene a trovare. Non che tu vai a trovare la melodia. E questo è bello quando accade. E quando accade non si può che seguire questa cosa qua…».

Questo stupore per un qualcosa di bello che accade prima che tu lo decida, è la percezione che accompagna tutta la storia. A partire all’amore di Guido per Dora, i protagonisti. Lei gli piove letteralmente dal cielo, se la trova tra le braccia: “Buongiorno Principessa!”. Gratuità assoluta.


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Nell’incontro con il clero fiorentino Benigni ha insistito molto sul legame tra le due parti del film: «La seconda parte del film (quella ambientata nel campo di concentramento) nasce dalla prima parte, dalla storia d’amore… E quindi bisogna ricordarsi tutte le cose che legano la prima alla seconda parte. In più c’è l’amore per il bambino, che credo sia la cosa più alta e più nobile dell’umanità».

Nel film si ride e si piange. E come dice l’attore italiano, premiato con tre Oscar nel 1999, «quando il riso sgorga dalle lacrime si spalanca il cielo». Uno dei sacerdoti presenti all’incontro promosso da Piovanelli disse che aveva visto nel film una sorta di inno alla speranza, di come l’umanità resiste anche quando il male sembra trionfare ovunque. E chiese a Benigni se ritenesse giusta questa sua lettura. Benigni rispose utilizzando, a sorpresa, una metafora cara al poeta francese Charles Peguy: «È un’interpretazione della quale sono fiero anche perché la speranza, tra le virtù teologali è quella più bambina, la più semplice, la più infantile delle virtù e quindi la più giocosa. La quale senza la fede non vive e senza la carità muore… È dalla leggerezza di questa virtù, la speranza, che parte tutto…».

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Non tutti, quando uscì, apprezzarono La vita è bella. Alcune associazioni ebraiche dissero che una tragedia come la Shoà non si prestava ad essere raccontata da un comico. Liliana Segre, che da bambina visse l’orrore dei lager nazisti, fece notare l’irrealtà di alcuni dettagli. “Non sarebbe mai stato possibile nascondere un bambino nelle baracche di un campo di concentramento”, rilevò, ad esempio. Ma era ovvio, si difese Benigni, che gli autori non avessero inteso realizzare un documentario bensì raccontare una “favola” sui generis sull’Olocausto. E d’altra parte l’orrore e la disumanità diabolica del nazismo emergevano con ancora più nettezza confrontate con l’amore umanissimo di un padre ebreo per il proprio bambino; un genitore che cerca in tutti i modi, anche inventandosi un gioco surreale, di risparmiare al figlio il trauma di quell’orrore.

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Il grande regista Mario Monicelli credette di cogliere un altro errore storico, laddove la liberazione del campo di sterminio arrivava, nel film, tramite un carro armato con la bandiera a stelle e strisce, mentre è noto come Auschwitz fu liberata dai russi e non dagli americani (Benigni rispose che in nessuna parte della sceneggiatura il lager era stato identificato con Auschwitz).

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Anche da alcuni (ristretti) ambienti cattolici arrivarono delle critiche e dei mugugni. Benigni era visto come un uomo di sinistra e in passato aveva interpretato film ritenuti anticlericali: alcuni opinionisti cattolici, su testate come Il Foglio e Tempi, si lasciarono andare a commenti aspri, accusando il film di facile “buonismo”. Ma non furono solo di natura politica le critiche. C’è chi pose la questione educativa: il padre di Giosuè aveva nascosto al figlio la realtà mentre invece l’educazione è sempre introduzione alla realtà, per dura che sia. Ma solo chi vive l’esperienza amorevole della paternità (che non è solo una funzione biologica) sa di quanta fantasia, di quanti accorgimenti “protettivi”, di quanta gradualità abbia bisogno l’introduzione del bambino nel mondo reale. Un approccio, quello di papà Guido, che certamente trovò comprensione ed emozione in un giovane religioso agostiniano, Robert Prevost, che quando uscì il film, nel 1997, si trovava missionario in Perù.

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©2020 di Lucio Brunelli

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