Storia di Alver, amico carissimo, giornalista e scrittore, innamorato della gente de La Carcova. Suo padre, un comunista romagnolo, gli impose quel nome strano per fare un dispetto al parroco. Ma poi si ritrovò un figlio cristiano che seguendo don Giussani scelse di vivere la sua vocazione in una baraccapoli di Buenos Aires dove, per dirla con De Andrè, il sole del buon Dio non dava i suoi raggi.
E' già un fatto raro che un giornalista europeo metta piede in una favela sudamericana. E' un caso più unico che raro, poi, che quel giornalista decida di lasciare la sua comoda casa in un quartiere residenziale di Buenos Aires scegliendo di vivere tra quelle misere baracche. Il fatto diventa stupefacente se ti viene la curiosità (e la curiosità non può non venire) di scoprire i motivi di una scelta così estrema e in apparenza un po' scriteriata, perché ti troveresti ad entrare, come d’incanto, nel meraviglioso mondo di Alver Metalli.
Un mondo in cui la sorte ebbe la bontà di introdurmi per la prima volta una quarantina d’anni orsono, nel 1982, quando mi fu proposto di lavorare nel mensile internazionale 30Giorni che stava muovendo i primi passi. In redazione mi accolse un uomo piccolo di statura, pacchetto di MS e accendino sempre a portata di mano, aveva trent’anni come me. Era Alver, capo redattore di questa nuova rivista che si proponeva di raccontare la vita della Chiesa nel mondo, con edizioni in spagnolo, inglese, francese, tedesco e portoghese. “Ma lo faremo con linguaggio giornalistico, non da sacrestia” mi
rassicurò Alver. Per me era un mestiere nuovo; dopo la laurea avevo lavorato all’università “La Sapienza” di Roma come assistente dello storico Gabriele De Rosa, ma ero precario, non si vedeva una lira e stavo mettendo su famiglia: la proposta di un lavoro regolare fu provvidenziale. Alver mi insegnò molte cose, lui faceva questo mestiere già da diversi anni e come inviato de Il Sabato aveva viaggiato più volte in America latina. Nel 1979 aveva seguito la rivoluzione sandinista in Nicaragua e l’anno seguente l’assassinio di monsignor Romero nel Salvador. Non potendo permettersi alberghi lussuosi trovava ospitalità presso case di religiosi, spesso in barrios poverissimi e quelle immagini di miseria non gli si toglievano dalla mente.
Il suo strano nome, Alver, induce molti a pensare che si tratti di uno straniero, di probabili origini sudamericane. Invece è originario di Riccione. Solo in tempi più recenti mi ha svelato il mistero: suo padre, un comunista romagnolo, gli aveva imposto quel nome come gesto di sfida al parroco. Erano gli anni del dopoguerra. Dopo le elezioni politiche del 1948 e la scomunica inflitta ai comunisti i rapporti tra Chiesa e Pci erano asperrimi. Il parroco di Riccione, terra rossissima, aveva chiarito che avrebbe battezzato solo bambini con un sicuro nome cristiano. E il compagno Metalli non era disposto ad accettare imposizioni. Per il suo primogenito, nato nel 1952, scelse accuratamente un nome che non figurava nel calendario cristiano: in effetti di sant’Alver nella storia della chiesa non ce n’era nemmeno uno. Si capisce quindi il motivo per cui Alver Metalli ha vissuto buona parte della vita nell’incertezza circa il suo battesimo e solo in età adulta ha trovato la prova che la mamma era riuscita ad ottenere che un altro sacerdote, più indulgente, versasse l’acqua benedetta sulla testolina del neonato. Figuratevi quindi la delusione del babbo quando apprese che il suo figliolo, una volta diventato grandicello, a scuola aveva conosciuto persone del movimento cattolico di comunione e liberazione e vi aveva aderito con tale entusiasmo da diventare uno degli storici fondatori del Meeting per l’amicizia fra i popoli. Le delusioni del babbo non finirono lì. Pur essendo cresciuto in un ambiente libero e edonista, di cui godette a quanto pare tutti i benefici terreni, il giovane Alver sentì maturare nel suo animo il desiderio di un impegno totale nella vita cristiana. Forse per un inconsapevole imprinting paterno, però, non voleva diventare né prete né frate. Gli piaceva il suo mestiere, non voleva rinunciarvi e sentiva che il fatto di non indossare alcuna divisa religiosa potesse rendere più facile l’incontro con le persone, anche le più lontane dalla Chiesa. I Memores domini di don Giussani gli offrirono la strada più adatta al suo temperamento. Monaci moderni, in abiti civili ma con lo stesso spirito del monachesimo benedettino: ora et labora, preghiera e lavoro. Quello con il sacerdote brianzolo è stato l'incontro più importante della vita di Alver. Don Giussani gli voleva molto bene e gli chiese di accompagnarlo, all'inizio degli anni Ottanta, in un viaggio "missionario" in Argentina, Brasile e Cile. Da questa foto, ricordo di quel viaggio, Alver non si separa mai.
Nel novembre del 1983, durante il ritiro d’Avvento, fece la sua professione che lo consacrò tutto a Dio, lasciandolo totalmente immerso nel mondo. Lui non pubblicizzava molto le sue scelte più intime, per un senso di sobrietà. Non sapevo ad esempio e l’ho scoperto solo poco tempo fa che tutti i giorni, per oltre un anno, nel periodo di verifica precedente l’ingresso nei Memores, Alver praticava l’adorazione eucaristica nella chiesa di san Gioacchino in Prati, a Roma. A quel tempo – erano gli anni 1980-’81 - lavorava nel settimanale Il Sabato e quella era la chiesa più vicina alla redazione; la mattina presto, prima di cominciare a lavorare o durante la pausa pranzo, tutti i santi giorni trovava il tempo di pregare in ginocchio davanti all’ostia consacrata esposta alla venerazione dei fedeli. Senza la preghiera Alver non sarebbe Alver.
Ora che faceva il capo redattore di 30Giorni viaggiava di meno. Quando riusciva a partire però si rifaceva. Inviava reportage chilometrici che mandavano in tilt il rullo di carta del fax (non c’erano ancora le mail!) e a volte facevano perdere la pazienza al suo vice, Paolo Biondi, che doveva impaginare la rivista e non sapeva più cosa tagliare per far stare dentro tutti i testi.
In redazione con Alver ci si divertiva. Eravamo un gruppo di giovani ben affiatati. Tra quelli della prima ora ricordo Tommaso e Marina Ricci, insieme a Stefano Maria Paci e Gianni Varani. Poi si aggiunsero Pina Baglioni, Stefania Falasca, Gianni Valente e nel tempo altri ancora, bravissimi. Tutti si affermarono come validi professionisti nel mondo dell’informazione.
Alver sa ridere di sé stesso e allora posso rivelare che per me uno degli enigmi a cui non sono ancora riuscito a dare risposta è come facesse a viaggiare in tanti complicati paesi non disponendo del benché minimo senso dell’orientamento. Una volta ci invitò nella sua Riccione, dove anche i suoi genitori ci accolsero cordialmente. A cena ci portò in una pizzeria non lontana dalla abitazione paterna; per rientrare a casa impiegammo oltre un’ora, s’era perso nella sua città (non così estesa) e non c’era verso di ritrovare la strada. Non posso immaginare come potesse orizzontarsi nel caos di Managua, San Salvador, Buenos Aires o Mexico City. Non osavo chiederglielo. Eppure, i suoi reportage arrivavano sempre, lunghi ma puntuali, all’orario stabilito.
Alver amava la Chiesa e amava pure gli scoop, nel senso corretto del termine, cioè dare notizie in esclusiva e per primi rispetto agli altri organi di informazione. A volte non si regolava e finivamo in mezzo a grandi turbolenze ecclesiastiche. All’inizio del 1984 riuscì ad ottenere, da una fonte cilena, la copia di un documento top secret del cardinale Josef Ratzinger, che allora ricopriva la carica di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Si trattava di uno studio sulla teologia della liberazione che di fatto anticipava nei contenuti un pronunciamento ufficiale dell’ex Sant’Uffizio che sarebbe apparso di lì a poco, nell’estate 1984. Alver non esitò a pubblicare su 30Giorni il documento Ratzinger, molto critico verso le correnti più radicali della teologia della liberazione. In effetti la stampa internazionale riprese con grande enfasi il testo del cardinale tedesco e il nostro mensile ricevette grande notorietà sui media. Forse troppa. Ratzinger non la prese bene e fece le sue rimostranze direttamente a don Giussani. L'iniziatore di Cl fu costretto a redarguire il suo discepolo per l’imbarazzo causato al futuro papa dalla piratesca pubblicazione di un documento che doveva restare riservato. Sembrò in quei giorni che 30giorni dovesse chiudere i battenti ma poi le cose si rasserenarono, Giussani riabbracciò Alver e il cardinale Ratzinger negli anni successivi divenne un grande amico della rivista 30giorni.
Come una potente calamita posta sull’altra sponda dell’Oceano, l’America latina continuava ad attrarre il giovane Metalli. Alla fine degli anni 80 gli fu proposto di lavorare in un giornale cattolico argentino, lui accettò e da allora la sua vita cominciò ad essere sospesa tra il vecchio continente e il nuevo mundo. Ogni quindici giorni prendeva l’aereo e volava a Buenos Aires, non faceva in tempo ad abituarsi al fuso che già doveva ripartire, mandando in confusione l’orologio biologico che detta i tempi del giorno e della notte. Nel 1999 lo ritroviamo in Messico, tre anni dopo a Montevideo, in Uruguay. Nel 2007 eccolo di nuovo in Argentina, stavolta in modo stabile. Collabora con Radio Rai realizzando inchieste e servizi dall’America latina. E nello stesso tempo vive con entusiasmo la sua vocazione, diventando sempre più... argentino.
Senza necessità di alcun proselitismo, solo con il contagio della sua umanità, coinvolge decine e decine di giovani sudamericani nell’esperienza cristiana secondo la sensibilità appresa da don Giussani. Amicizie a cui resta fedele tutta la vita, come quella con la famiglia di Veronica Cantero, bambina costretta a vivere su una carrozzina per una disabilità fisica ma piena di vita e talento. Ora ha vent’anni ed è diventata, anche grazie agli insegnamenti di Alver, una scrittrice ben nota in Argentina.
Qui è con Dacia Maraini che nel 2016 a Napoli le consegnò il premio Elsa Morante vinto da Veronica con il romanzo per ragazzi “Ladri di ombre”.
Un’altra profonda amicizia ha legato Alver Metalli ad Alberto Methol Ferrè, intellettuale uruguayano scomparso nel 2009. Personaggio fuori dagli schemi, Methol Ferrè è considerato uno dei più originali e fecondi pensatori latinoamericani: fu intimo del presidente uruguayano José Mujica (leader carismatico con un passato da guerrigliero tupamaro al tempo della dittatura) e molto prossimo anche al cardinale Jorge Mario Bergoglio prima che diventasse papa. Alver ha scritto due libri importanti sul pensiero di Methol Ferrè ma soprattutto tra loro c'era grande simpatia ed affetto. In questa vecchia foto li vedete insieme.
Numerosi giovani (ragazzi e ragazze) argentini hanno seguito Alver nella via dei Memores, abbracciando i consigli evangelici (povertà, castità obbedienza) con serietà e allegria. Esperienza che incuriosì l’arcivescovo di Buenos Aires: nel lontano 1995 Bergoglio accettò l'invito di Alver a benedire una nuova casa di questi originali “monaci laici” nel quartiere Caballito (confinante col quartiere Flores dove Bergoglio era nato); strani monaci ma strano anche questo cardinale che si muoveva senza autista: raggiunse l’abitazione dei Memores in metropolitana, come un comune cittadino. E mentre cenavano insieme sorprese i suoi commensali domandando loro come immaginavano il paradiso.
Tramite Bergoglio, Alver conobbe un gruppo di preti che avevano scelto di vivere nelle villas miseria, le città della miseria, come gli argentini chiamano le grandi baraccopoli sorte ai margini della capitale Buenos Aires e diventate sinonimo di povertà, degrado e violenza. Tra questi sacerdoti c’è José Maria di Paola, chiamato da tutti padre Pepe. Classe 1962, capelli e barba lunghi, assomiglia un po’ al Jeremy Irons gesuita del film Mission. Fa parte di un gruppo di parroci le cui origini storiche risalgono al cattolicesimo impegnato e terzomondista degli anni Sessanta. Inizialmente avevano trovato ispirazione nel modello francese dei preti operai, con una forte connotazione sociale e politica. Ma proprio la scelta di vivere con i poveri, e non solo di ragionare sui poveri, li aveva gradualmente portati a rivedere le forme della loro testimonianza, a de-ideologizzare il loro impegno. Gli abitanti della villa volevano tra loro dei preti veri, non attivisti di una causa politica; sacerdoti che si dedicassero a tempo pieno a quella comunità, prendendosi cura delle loro necessità materiali ma prima di tutto delle loro anime e anche in quei luoghi malfamati portassero il vangelo, i sacramenti, le processioni, la devozione per la Vergine...
Alver inizia a frequentare padre Pepe, si coinvolge sempre di più nel suo apostolato tra gli emarginati. Nel 2014 chiede a don Julian Carron – allora presidente della fraternità di Cl - il permesso di lasciare la casa dei Memores nel centro di Buenos Aires per vivere la stessa vocazione nella nuova baraccapoli dove padre Pepe si è stabilito: “La Carcova”, un agglomerato di casupole malmesse dove nessuno si azzarda ad entrare, per timore di essere derubato o fare una brutta fine. Don Carron dà fiducia ad Alver, autorizza lo spericolato cambio di residenza. Padre Pepe gli cede la sua stanzetta, dove i topi di notte corrono sul soffitto e il silenzio della notte è rotto solo dal latrato dei cani randagi o dalle sparatorie fra gang rivali. Per Alver inizia una nuova vita, una nuova avventura. Non si contano le volte che gli hanno puntato una pistola in fronte, per portargli via il cellulare o qualche pesos. Finora gli è andata sempre bene e qualche volta ha pure recuperato il telefono. All'inizio scriveva molto: corrispondenze dall’America latina per Vatican insider, il sito specializzato della La Stampa di Torino e per il suo fortunato blog Terre d’America; anche romanzi, come l'avvincente Morte di un benzinaio di provincia, un giallo che ha come sfondo il dramma dei desaparecidos. Col passare degli anni si è affezionato sempre di più alle persone che popolano la villa miseria, con le loro storie di perdizione e di redenzione. E ad essi dedica la maggior parte del tempo delle sue giornate. Tossici che provano a cambiare vita negli hogar di Cristo aperti da padre Pepe; ragazzi di strada, sbandati, mai usciti dalla baraccapoli, per i quali si organizzano
vacanze al mare in locali di fortuna messi a disposizione della parrocchia: “quando si arriva, col pullman, la vista del mare è nascosta da alte dune di sabbia, così la visione dell’oceano li coglie all’improvviso, appena superate le dune: restano come tramortiti dalla bellezza” dice Alver “un sussulto di meraviglia che resterà per sempre nella loro vita”. E poi il centro sportivo sorto sul terreno di una discarica abusiva con l'aiuto di amici romani a cui Alver è molto legato e con i quali trascorre ogni estate una avventurosa vacanza marinara a bordo del gommone guidato dal leggendario capitano Emilio; la scuola professionale, dove è possibile imparare un mestiere; la banda musicale - la murga! - per stare insieme in allegria evitando di frequentare altre bande.
Tutte occasioni di incontro e se Dio vuole anche di testimonianza: “La capacità di redenzione di Cristo devi vederla in azione, per crederci”, racconta Alver. Lui l'ha vista in azione anche durante la pandemia. La “peste”, come la chiama lui, ha falciato tante vite tra i vicoli lerci della villa. Ma di fronte all’emergenza per il Covid attorno alla parrocchia di padre Pepe si sono mosse energie solidali che hanno sorpreso tutti.
Decine di volontari (gente comune, povera gente anche loro) hanno attivato presso i locali parrocchiali una cucina popolare in grado di sfamare oltre tremila persone al giorno. Chi cucinava, chi distribuiva i pasti, chi lavava i pentoloni e chi igienizzava.
Alver negli occhi ha questi fatti quando parla di capacità redentrice di Cristo. Storie di delinquenti che cambiano vita e si mettono al servizio della comunità. Di giovani che lottano con tutte le forze per uscire dalla droga, come “il polacco” che tutti i giorni alla stessa ora chiama Alver solo per sentire la sua voce che gli dà fiducia. Di moribondi a cui Alver, su incarico di padre Pepe, porta l’eucarestia in squallide baracche e che nel corpo di Cristo trovano il conforto che la vita spesso ha negato loro. E mille altre meraviglie della Grazia che solo il buon Dio conosce e Alver ha un sacrosanto pudore a svelare.
Alcune di queste esperienze però le ha raccontate, con penna raffinata, in un paio di libri-diario. Il primo (pubblicato nel 2020 dalle edizioni san Paolo) si chiama Quarantena; aveva la prefazione di papa Francesco che ha fotografato così la scelta di Alver: “Sei anni fa ha lasciato la sua bella casa in un quartiere residenziale di Buenos Aires per andare a vivere tra le catapecchie de ‘la Carcova’. Lo ha fatto perché è stato attratto dalla testimonianza di padre Pepe e ha sentito che così poteva meglio realizzare, con gioia, la sua vocazione cristiana, maturata alla scuola spirituale di don Giussani e dei suoi Memores”. Con gioia. Ecco, forse è questa la parola più giusta per raccontare, in definitiva, il meraviglioso mondo di Alver. La parola che meglio dice la differenza tra ciò che è sforzo tutto e solo umano e la lievità di ciò che è tutto e solo dono di Dio.
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