Nessuno poteva sapere cosa stesse succedendo realmente nella Cappella Sistina dopo la prima votazione andata a vuoto il 12 marzo sera. La clausura imposta ai cardinali elettori e rispettata seriamente non lasciava trapelare alcuna indiscrezione. Si seppe solo cinque anni dopo, grazie ad un libro del giornalista irlandese Gerard O’Connell, l’esatto svolgimento della elezione («The Election of Pope Francis: An Inside Account of the Conclave That Changed History», Orbis Books, 2019). Nel primo scrutinio il cardinale di Milano era stato effettivamente il più votato con 30 preferenze, un numero inferiore alle previsioni dei media. Al secondo posto, con 26 voti, già emergeva il nome di Bergoglio. Le successive quattro votazioni portarono il cardinale gesuita sul soglio di Pietro come una valanga che si ingrossa man mano che scende a valle. Nella seconda votazione, la mattina del 13 marzo, Bergoglio risultava già in testa: 45 preferenze contro le 38 andate a Scola. Il terzo scrutinio registrava un ulteriore avanzata: 56 a 41. Il quarto lo portava vicino alla maggioranza dei due terzi: 67 a 32.
Bergoglio non credette di diventare papa fino alla quarta votazione, la penultima. All’inizio interpretò i primi consensi come “voti magazzino”: in attesa di chiarirsi le idee i cardinali parcheggiavano le preferenze su un nome, confidando che intanto maturasse il vero candidato. Questa era la sua percezione. Di fatto la volontà del Conclave fu chiarissima e caduta l’ipotesi Scola nessun’altra candidatura si manifestò, al di fuori di Bergoglio. L’ultimo intralcio fu la voce diffusa ad arte che fosse privo di un polmone e quindi inabile per motivi di salute a fare il papa. Fu interpellato e dovette chiarire che da ragazzo, in seguito a una brutta polmonite, aveva subito l’amputazione di una piccola parte del polmone, ma senza alcun danno alle normali funzioni respiratorie. La quinta votazione, nel tardo pomeriggio del 13 marzo, lo consacrò Papa con 85 voti. Scola ne ricevette 20. Il cardinale di Milano, dando testimonianza di amore all’unità, invitò i suoi amici a convergere su Bergoglio. La fumata bianca si palesò alle 19.06 in un cielo scuro e piovigginoso. Stavo in redazione, negli uffici Rai di Borgo, e mi precipitai verso la postazione live per l’edizione straordinaria del tg. Un centinaio di metri, quasi di corsa. La postazione si trovava al secondo piano di una grande impalcatura metallica allestita dall’Eurovisione in piazza Pio XII; guardando la facciata di San Pietro, esattamente alla fine di via della Conciliazione, sul lato destro della piazza. Ovviamente non sapevamo ancora chi fosse l’eletto. Bisognava aspettare l’annuncio del protodiacono dalla loggia delle benedizioni. Passò un’ora e sei minuti, mi sembrò un tempo interminabile, l’adrenalina della diretta in corpo, addosso un giaccone umido, la postazione incastrata in uno spazio stretto tra lo studiolo del Tg1 e la telecamera del Tg3. Alle spalle lo spettacolo magico di una piazza che si gonfiava di fedeli, di minuto in minuto, come un fiume in piena. Speravo in Bergoglio ma non potevo escludere alcuna possibilità. Mentre la grande porta a vetri si stava aprendo sul balcone della loggia, con l’unica mano libera (nell’altra stringevo il microfono) afferrai dalla borsa ai miei piedi il libretto con le biografie di tutti i cardinali. Avendo cura di non essere inquadrato lo aprii alla lettera S: Scola e Scherer. Conoscevo bene il cardinale di Milano, da studente avevo partecipato anche a degli esercizi spirituali predicati da don Scola per universitari di Comunione e Liberazione. Ma non ricordavo a memoria le date essenziali della sua biografia. Ero tra i vaticanisti in controtendenza che non avevano scommesso su Scola ma in quegli ultimi istanti mi prese la paura di trovarmi impreparato e volevo avere a portata di mano la biografia sua e di Scherer, i candidati della vigilia. In studio a Saxa Rubra c’erano Enzo Romeo e Luca Salerno, tra i fedeli in piazza stava posizionandosi Giovanni Battista Brunori, io ero in cima a quell’impalcatura. Quando il cardinale Tauran pronunciò in latino il nome Giorgium Marium… capii subito che si trattava di lui, Jorge Mario… Mentre le telecamere inquadravano ancora il volto del cardinale francese, che completava l’annuncio pronunciando il cognome Bergoglio, feci un salto in aria, di esultanza, un gesto d’istinto avendo cura di silenziare il microfono. Mi ricomposi in tempo per i primi commenti, sebbene il cuore battesse forte. Avevo la fortuna di essere uno dei pochi giornalisti televisivi a conoscere tutto o quasi del nuovo Papa. Sentivo l’euforia crescere negli studi del Tg2, eravamo stati gli unici a inserire il nome di Bergoglio nella galleria dei papabili. L’agitazione che di solito mi accompagnava nelle dirette era svanita. Parlavo tranquillo, raccontavo aneddoti, svelavo tratti inediti. Ma ora, mi domandavo, come avrebbe reagito Bergoglio all’impatto con quella folla incredibile? E la gente, quella in piazza e quella più numerosa che da casa stava seguendo in diretta l’evento, come avrebbe accolto il primo Papa latino-americano della storia? Domande silenziose, mentre continuavo a raccontare di Bergoglio, in attesa dell’apparizione sul balcone del 266esimo successore dell’apostolo Pietro. Si sarebbe lasciato paralizzare dall’emozione, sarebbe apparso troppo timido o troppo ascetico? Ero sicuro si trattasse di un uomo di Dio, deciso a cambiare tante cose, una benedizione per la Chiesa… ma che rapporto sarebbe riuscito a stabilire con la massa dei fedeli e con i media? E l’apparato curiale come avrebbe digerito un Papa così? Gli avrebbe fatto il vuoto attorno, come fecero con papa Luciani? Questi erano i miei pensieri nascosti, in quei minuti. La folla che riempiva San Pietro non sapeva niente di lui ma aveva già preso a scandire il nome scelto e anticipato da Tauran nell’habemus papam: «Francesco, Francesco!!». Tanta fiducia, tanta attesa… Un nome impegnativo, una sorpresa anche per me. Bastò quel primo “Buonasera!” a dissolvere i miei pensieri. Il feeling con la gente fu immediato e incredibile. Lo vedevo sicuro, comunicava una pace non artificiosa e una simpatia travolgente. Alla fine, quando disse ai fedeli il suo primo “pregate per me” ebbi un sussulto di emozione: l’esperienza che avevo vissuto io, otto anni prima, a casa di Gianni e Stefania, il suo sguardo che mi fissava mentre attendeva la mia risposta, ora diventava esperienza di tutti. Ero commosso e felice, come tutti quella sera. Riuscii non so come a restare lucido quanto bastava per governare i sentimenti e provare ad essere più professionale possibile. Ero tra i pochi giornalisti a conoscere il nuovo Papa e potei raccontare aneddoti della sua vita ancora sconosciuti al grande pubblico. «Dobbiamo aspettarci tante sorprese», avevo concluso.
Quando si spensero le telecamere, un turbinio di messaggi e telefonate di lavoro. Pensavo a cosa ne sarebbe stato adesso del nostro rapporto. Ci saremmo più sentiti? Chissà. La risposta arrivò tre giorni dopo, sabato 16 marzo. La mattina ero stato a seguire l’incontro del nuovo Papa con la stampa internazionale accreditata in Vaticano per il Conclave, alcune migliaia di giornalisti assiepati nell’Aula Nervi. Un incontro ancora una volta travolgente. Aveva messo da parte più volte il discorso preparato, per raccontare a braccio una raffica di aneddoti del Conclave. Qualcuno gli aveva suggerito di prendere come nome Clemente XV, «così ti vendichi di Clemente XIV», il Papa che firmò il decreto di soppressione dei gesuiti nel 1773. Altri invece volevano che si chiamasse Adriano, prendendo ispirazione da Adriano VI che era stato un Papa riformatore perché adesso «bisogna riformare». La scelta del nome di Francesco – primo Papa della storia a chiamarsi così – era maturata quando il suo vicino di banco nella Sistina, il cardinale brasiliano Claudio Hummes, abbracciandolo e baciandolo nel momento cruciale delle votazioni lo aveva supplicato di non dimenticarsi dei poveri. «Ah, come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!». Ero dentro l’Aula Paolo VI come tutti gli altri operatori dei media. Avevo sperato di poter incrociare il suo sguardo, ma ero troppo distante, pazienza. Ero felice così. La maggior parte dei colleghi era entusiasta. Ripensavo al clima mesto degli ultimi mesi di pontificato di Benedetto XVI, mi sembrava una novità bella per la Chiesa. Nel pomeriggio stavo preparando il servizio per la edizione delle 20.30, chiuso nella mia stanzetta, finestra aperta e sigaretta accesa, davanti al computer: la solita impossibile impresa di dare in massimo due minuti il sunto di tanti aneddoti ed emozioni. Squilla il telefono, numero privato. «Lucio? Sono padre Bergoglio… Come stai, ti disturbo? ho provato a chiamarti ieri, hai sempre il telefono staccato o occupato…!». Cosa rispondi a un Papa che ti chiama per nome e ha perso tempo a cercare proprio te, che ti senti (e forse anche sei) il peggiore dei cristiani di questa terra? Niente, quella prima volta, semplicemente, mi venne un groppo in gola per la commozione e cominciai a singhiozzare come un bambino. Mi scusi, Santità, balbettai, ma lei mi fa questi scherzi… «Fai… tranquillo, finisci… ti aspetto, ti devo dire una cosa». Finii. E in pochi secondi ci ritrovammo a parlare come sempre, in libertà e allegria. Gli dissi che stavo preparando il servizio sull’udienza del mattino con i giornalisti. Mi chiese se c’ero («non ti avevo visto») e cosa pensassi della sua scelta di alternare la lettura del discorso ufficiale, preparato dagli uffici competenti della Curia, con aggiunte a braccio. «Non ho voluto abbandonare del tutto il testo scritto per rispetto nei confronti dei collaboratori ma per non farvi dormire vi ho raccontato anche quegli aneddoti del Conclave… Andava bene, così?». Sì, andava bene così. Fin dall’inizio temevo che la struttura lo potesse rigettare come un corpo estraneo, facendogli il vuoto attorno. La sua scelta mi sembrò saggia. Spirito collaborativo senza rinunciare ad essere se stesso
(tratto da Papa Francesco come l'ho conosciuto io, edizioni San Paolo, pp.77-85)
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