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  • Immagine del redattoreluciobrunelli

Mounier, le stelle e don Giussani

Ottanta anni fa Emmanuel Mounier scriveva L'avventura cristiana. Trovai una copia di questo libricino in una bancarella a Roma negli anni dell'Università. Fu una delle letture più appassionanti della mia vita.

L'attualità di Mounier e alcune sorprendenti consonanze con don Giussani in questo articolo su L'Osservatore romano, che riproduco di seguito.



È l’inverno del 1944, l’ultimo anno di guerra, l’Europa trasformata nel più sanguinoso e sterminato campo di battaglia nell’intera storia dell’umanità. Emmanuel Mounier si trova nascosto a Dieulefit, lontano da Parigi, dopo l’esperienza del carcere per la sua opposizione al governo filonazista di Vichy.  È in questo paesino nel dipartimento della Drome che, giusto ottant’anni fa, scrive L’avventura cristiana, un libricino che ha influenzato la migliore gioventù del dopoguerra e conserva tutta intera, anche oggi, la sua carica profetica.

Mounier, 39 anni, stava vivendo un momento particolare della sua vita, con la piccola Francoise, sua figlia, in coma ormai da quattro anni; un’esperienza di dolore e di fede di cui resta una testimonianza commovente nelle lettere inviate alla moglie Paulette.  A quel tempo gli alleati non erano ancora sbarcati in Normandia ma si cominciava a vedere un filo di luce tra le grandi tenebre che avvolgevano il pianeta. Mounier si interroga sul dopo guerra, su quali basi sarà possibile costruire una società in grado di riconoscere e proteggere il valore della persona umana, dopo i totalitarismi del ‘900. In altre opere svilupperà la sua idea di una “rivoluzione personalista e comunitaria”.



In questo libricino (che sarà pubblicato solo a guerra finita, nel 1945) riflette esclusivamente sulle sorti del cristianesimo. Sarà in grado di parlare alle menti e ai cuori delle giovani generazioni, di mobilitare energie vitali per il bene? Lo sguardo di Mounier sulla “cristianità” del suo tempo è realista, anche amaro, ma ispirato solo da una grande passione di autenticità. “Si trova nel mondo, più spesso di quanto convenga, sotto il nome di cristianesimo, un codice di condotta morale e religiosa la cui preoccupazione principale sembra quella di scoraggiare gli slanci, di colmare gli abissi, di schivare l’audacia, di svuotare la sofferenza, di ricondurre a una conversazione domestica i richiami dell’Infinito…”. 

Il fondatore della rivista Esprit, figlio intellettuale di Charles Peguy, vede in largo anticipo il crollo di una religiosità abitudinaria, anemica, impaurita di fronte alla realtà. Una “chimica” spuria che mescola e confonde le virtù cristiane con un perbenismo piccolo borghese. “Sulla persistenza delle cerimonie e l’ondata sonnolente delle folle, già si scorgono, minuti ma sempre più numerosi come le prime gocce di un uragano, i segni furtivi della più grande tempesta, forse, che debba sommergere gli edifici della cristianità”. Le chiese non erano ancora vuote, ma Mounier ha chiaro il presagio di un rivolgimento che avrebbe nel tempo ridotto a minoranza la comunità dei credenti. Di fronte allo scettico sarcasmo di Nietzsche, che si fa beffe dei cristiani considerati dei mezzi uomini, a poco servirà esibire “titoli storici” o ricorrere all’antica apologetica. “Il portiere della storia non guarda le loro ragioni, guarda i loro visi”.  Anche qui, il pensatore francese precorre i tempi, anticipa quanto avrebbe constatato Paolo VI una ventina di anni dopo: “l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri”. Non è dunque urgente, domanda Mounier, “formare degli uomini dimostrativi, oltre a mantenere le dimostrazioni tradizionali in buono stato di servizio?”. E ancora: “Non a colpi di eloquenza sacra, rinchiudendosi in una torre di sufficienza, ma col suo stesso slancio il cristianesimo vuole vincere e trasfigurare la vita. La maledizione lanciata a distanza è sempre stata una confessione di debolezza”.  

Se la casa borghese è una “casa chiusa” e il cuore borghese è un “cuore guardingo, pieno di precauzioni”, bisogna chiedere al buon Dio il dono di un cristianesimo “all’aria aperta”, non affetto da quel “malumore contro la vita che sfigura tante virtù”.  



Una vita cristiana che abbia il gusto di un’avventura umanamente avvincente, lo sguardo non ripiegato su di sé. “Se dovessi scegliere degli adepti per un movimento della gioventù cristiana, vorrei far loro a bruciapelo questa domanda: ‘pensate spesso alle stelle?’, dopo essermi assicurato, beninteso, che prima pensino ai loro piedi”.  A proposito di stelle e movimenti giovanili cristiani, qualcuno prenderà alla lettera negli anni 50 e 60 le domande di Mounier: “quello che state facendo che c’entra con le stelle?” domandava don Luigi Giussani a una coppia di fidanzati abbracciati, che d’istinto si erano ritratti al passaggio del sacerdote. Non c’è amore vero senza un’apertura all’Infinito.

Il finale de “L’avventura cristiana”, con l’immagine poetica del veliero, è una delle descrizioni più suggestive – ante factum – di un cristianesimo in uscita: “Metta la vela grande dell’albero di maestra, e uscendo dai porti in cui vegeta, salpi verso la stella più lontana, senza aver paura della notte che l’avvolge”.


 

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